Una delle conferenza stampa di presentazione più scariche degli ultimi 12 mesi. La prima di Stefano Pioli a casa Milan è sembrata un lungo susseguirsi di giustificazioni e bilanci parziali da parte di Boban e Ivan Gazidis che hanno trasformato quello che solitamente è un breve preambolo in una gigantesco interrogativo che dubito abbia messo a proprio agio l’effettivo protagonista della giornata: il nuovo allenatore rossonero. 

Luciano Spalletti. Ecco il nome che tifosi e probabilmente molti membri del Club si aspettavano di dover pronunciare dopo l’esonero di Giampaolo. Boban lo nega, ribadisce come il board del Milan abbia sempre e solo pensato al nome di Pioli per la panchina di una squadra che fatica a trovare risultati e identità ma quando la stampa incalza sembra comunque più intenzionato a spostare l’attenzione su quelle che sono le doti di Stefano Pioli. 

Se tornasse adesso a Firenze, Pioli troverebbe un silenzio quasi irreale: la sosta del campionato negli ultimi anni solitamente lasciava spazio a polemiche e malumore, oggi invece è illuminata dall’annuncio ufficiale dell’inizio dei lavori per il nuovo centro sportivo della Fiorentina e dal rinnovo senza drammi, rilanci e ripicche di Gaetano Castrovilli.  Troverebbe i tifosi che lo hanno appoggiato, a volte criticato e alla fine applaudito, finalmente sorridenti e uniti: un lusso del quale non ha potuto godere. Sicuramente invidierebbe un po’ la posizione privilegiata in cui si trova a lavorare adesso Vincenzo Montella, tecnico molto diverso da lui per quanto riguarda il credo calcistico ma che sicuramente lo ringrazierebbe per certe sue eredità: una su tutte, German Pezzella uno che come lui, di fronte alle difficoltà non si tira indietro. 

Stefano Pioli era arrivato dalla tempesta interista in un mare ancor più agitato: il club nerazzurro e quello gigliato erano reduci da una stagione difficile dovuta anche ad errate scelte tecniche di inizio stagione. A Milano dopo le dimissioni di Roberto Mancini, fu commesso l’errore di affidare la squadra a Frank De Boer, un allenatore sicuramente molto valido ma totalmente impreparato a proiettarsi in una realtà e in una squadra che a lui erano estranee. A Firenze l’errore fu quello di non scegliere una risoluzione anticipata del rapporto lavorativo con Paulo Sousa, il quale addirittura già dal Febbraio 2016 aveva manifestato una certa insofferenza all’ambiente.

Insomma, la Fiorentina cercava un allenatore per cui la panchina viola rappresentasse un punto di arrivoPioli una realtà più lineare rispetto all’Inter che aveva vissuto lui, esonerato ad una manciata di giorni dal termine della stagione per motivazioni ancora oscure.

Normalizzatore. E’ questa la prima etichetta che anche a Firenze gli viene cucita addosso, forse un retaggio delle passate esperienze, forse un’idea ispirata ai suoi concetti di gioco che comunque ci sono, restano ben definiti e lo identificano molto. Stefano Pioli per quanto riguarda la preparazione fisica è un allenatore che punta molto su carichi di lavoro pesanti, fa molta tattica, sogna una Fiorentina “verticale” in grado di arrivare rapidamente in porta sfruttando le accelerazioni dei suoi esterni. I viola erano quindi una squadra che recuperava bene palla ma che stenta in fase di costruzione, soprattutto quando trova le linee di passaggio chiuse: sembra avere poche idee. La struttura posizionale offensiva della Fiorentina è insomma basata sui lanci lunghi a cercare lo scatto di Muriel, Chiesa o Simeone.

Molti imputano alla strategia tattica di Pioli un’eccessiva attenzione verso la quantità e non verso la qualità, un disegno che all’organizzazione preferisce l’istinto, che almeno a Firenze portava necessariamente giocatori di talento come Federico Chiesa a preferire la soluzione individuale piuttosto il fraseggio con il compagno di squadra.

E poi c’è il problema della continuità, una dote che le squadre di Stefano Pioli non hanno mai saputo far loro: l’altalena di risultati a Firenze era diventata anche anche emotiva e ha finito ovviamente con l’influire sulla classifica e sulla serenità dell’ambiente.
Resta il fatto che la Fiorentina di Pioli contro il Frosinone, la sconfitta che ha sancito di fatto il suo fine corsa sulla panchina gigliata, non può rappresentare niente di vicino a quello che è il progetto tecnico di un allenatore che può non entusiasmare ma che comunque abbiamo conosciuto come molto diverso: Pioli dopo quei novanta minuti si è sentito completamente scaricato dalla società e piuttosto di imporsi ha preferito fare un passo indietro.

Della sua dimensione umana rimarrà anche questa scelta, così coraggiosa e impopolare tra i suoi colleghi. Come rimarrà la corsa sotto la pioggia verso Federico Chiesa dopo il terzo goal segnato alla Roma, l’immagine di lui sotto il settore ospiti a Torino che con i suoi giocatori ricorda Davide Astori. Rimarrà quella conferenza stampa di disperazione prima di Fiorentina – Benevento. La sua ferma volontà nel voler rafforzare il senso di appartenenza ad un progetto per rafforzare di conseguenza anche l’identità tattica della squadra.